(to be translated soon)
Che il prodotto interno lordo (d’ora in poi PIL) sia un modo un po’ antiquato ed altamente discrezionale di misurare il flusso di ricchezza prodotto annualmente in un paese non è un segreto. Basti solo pensare al fatto che alcune grandezze vengono imputate al prezzo di mercato (quasi tutti i beni ed i servizi oggetto di transazioni private), altre al costo di produzione (i servizi offerti dal settore pubblico) ed altre, infine, non vengono computate affatto (per esempio, il lavoro domestico e di cura). Se poi siete proprietari di un’abitazione, allora il reddito presunto derivante da quel “servizio abitativo” finirà nel calcolo del PIL anche se voi non avete incassato (né pagato) un solo euro. Insomma, per la contabilità nazionale voi siete dei moderni “rentier” e non lo sapevate. Curioso, eh? Potremmo continuare con la rassegna di bizzarrie contabili, ma mi fermo qui. Tanto pare proprio che dovremo abbandonare il PIL – che ormai criticano un po’ tutti: ambientalisti, politici, religiosi, economisti eterodossi ed ortodossi – e basare le nostre discussioni macroeconomiche future su qualche altra grandezza, che so, su qualche indice di misurazione del benessere sociale o meglio della felicità. O magari su qualche indicatore ecologico. Del resto, tali strumenti si sono moltiplicati negli ultimi anni, attraendo finanziamenti cospicui. Non v’è organizzazione internazionale che non ne abbia messo a punto uno. Basta solo scegliere il migliore, o i migliori, e al diavolo il PIL, no?!
No. Confesso, anzi, che la sola prospettiva mi atterrisce. Già li sento argomentare “sì, siamo al quarto trimestre di crescita negativa, ma, al bando i vecchi arnesi novecenteschi! L’indice di felicità è in ripresa. L’austerità funziona!”. D’altra parte, non è forse vero che la ricchezza non fa la felicità?! Sarà, ma io qui sento puzza di fregatura. Lasciatemelo dire. C’è qualcosa di pretestuoso e socialmente regressivo nella critica al PIL e alla crescita, o almeno in alcune declinazioni di tale critica. Mi riferisco, in particolare, ad uno dei cavalli di battaglia della sinistra e della destra ecologiste: la decrescita. Che la crescita del PIL non conduca alla felicità mi pare assodato. Il PIL misura (oltretutto in modo piutttosto impreciso, lo abbiamo visto) il valore monetario dei beni e servizi finali prodotti in una certa area geografica. Non misura l’equità della distribuzione del reddito, né l’impatto ecologico delle produzioni antropiche, né la felicità degli individui che popolano quell’area. E del resto nessun economista, nemmeno il più conservatore, ha mai pensato di usarlo a tal fine. Che la decrescita possa riuscire laddove la crescita sovente ha fallito pare, però, ancora più improbabile. L’esperienza storica sta lì a dimostrarlo. E non parlo solo della felicità individuale. Prendiamo il tema dell’inquinamento e del depauperamento delle risorse ambientali. È possibile istituire una relazione diretta tra quest’ultimo e la crescita del PIL?
La risposta non è scontata come sembrerebbe. Come detto, il PIL misura il valore monetario di un certo insieme di beni e servizi. Non ci dice molto sulle loro “quantità” nè sulla loro composizione. Un suo aumento non implica necessariamente (sottolineo, necessariamente) un aumento dei beni materiali prodotti e scambiati in tale area – dei valori d’uso, si sarebbe detto un tempo. Né tale aumento comporta, di per sé, un aumento del grado di dissipazione di materia ed energia utilizzate nel processo produttivo. La ragione, banale, è che ciò dipende dal tipo di beni prodotti (asciugacapelli, suv, biciclette, salumi, software, missili, depuratori?) e dalla tecnologia utilizzata per produrli. Del pari, specie in tempi di austerità e precarietà, un aumento del PIL non dice molto nemmeno sulla “qualità” del lavoro che lo ha generato. Ecco perché si farebbe meglio a tornare a discutere di qualità o composizione del PIL, anziché di sua decrescita – che tanto quella, in Italia, è già nei fatti e non pare che stia sortendo effetti miracolosi… Il che rimanda immediatamente al problema della critica del comando capitalistico sulla produzione. Alla lotta, cioè, per l’istituzione di un controllo democratico (statale, usiamola pure ‘sta parolaccia) su cosa e quanto si produce, e su come lo si produce. Utopico? Forse sì. O forse no. Ricorreva nei giorni scorsi l’anniversario dell’inizio della rivoluzione che mostrò al mondo che un’altra forma di organizzazione economica e sociale è possibile. Abbiamo avuto quasi un secolo per riflettere sui molti, troppi, errori compiuti. Mi chiedo se, in un momento in cui l’Europa torna ad essere attraversata da conflitti intercapitalistici e lacerazioni sociali crescenti, non sia arrivato finalmente il tempo di riprovarci.
PS: e, sì, contestare Salvini e i suoi è sacrosanto, ci mancherebbe. Al lato pratico non si combina molto e si rischia pure di rimediare qualche denuncia. Ma è anche così che le nuove generazioni si fanno le ossa e questo conta. Solo che non basta. Se è vero che parlamenti e governi delle periferie europee appaiono ormai come simulacri svuotati di qualsivoglia sovranità, allora è dalla critica radicale dell’Unione Europea (che, per chi si fosse appena svegliato dopo aver trascorso gli ultimi tre decenni in stato di ibernazione, non è la Comune parigina, ma un’area di libera circolazione di merci e capitali, e cioè di libero sfruttamento della forza-lavoro) che bisogna ripartire. Hic Rhodus, hic salta – avrebbe detto quel tale.