Sono trascorsi più di dieci anni dal 15 settembre 2008, giorno della dichiarazione del fallimento di Lehman Brothers, la più grande bancarotta nella storia degli Stati Uniti e avvio di una reazione a catena che ha messo in crisi le fondamenta del sistema finanziario globale. Una crisi le cui ripercussioni, immediate e pesantissime anche sull’economia reale, hanno portato alla recessione globale del 2009 e contribuito a porre le basi della crisi dell’euro e dei debiti sovrani del 2010-2012, particolarmente acuta nel nostro Paese. Dieci anni di crisi che hanno visto anche un rinnovato interesse per il pensiero economico di Marx – e in particolare per la sua analisi del capitalismo – che si accompagna anche a frequenti riferimenti alla necessità di “politiche keynesiane”. Nel quadro del cambiamento economico in corso stanno avvenendo anche una serie di trasformazioni che pongono problemi nuovi o ripropongono nel nuovo contesto questioni antiche: disoccupazione tecnologica, pianificazione e big data. Per arricchire il dibattito su tali questioni, di cui Pandora si occupa da tempo, abbiamo intervistato Marco Veronese Passarella, economista eterodosso italiano e studioso di impostazione marxista attento anche al pensiero di Keynes.
Marco Veronese Passarella è docente di economia presso l’Economics Division della Leeds University Business School. I suoi interessi di ricerca includono le teorie dei prezzi e della distribuzione, la dinamica macroeconomica, l’economia monetaria e la storia del pensiero economico ed è autore di articoli su riviste scientifiche nazionali ed internazionali, tra le quali il Cambridge Journal of Economics, il Journal of Economic Behavior & Organization, la Review of Political Economy e Metroeconomica. Fa parte della redazione di Economia e Politica ed è membro del gruppo Reteaching Economics. L’intervista è a cura di Lucio Gobbi.
Diversi anni fa, La invitai all’Istituto Gramsci di Rimini per tenere una lezione sulla crisi economica che, ai tempi, era da poco cominciata. Allora, mi colpì subito il fatto che Lei si definì Marxista. Fino agli anni Novanta le Università erano affollate di professori che si definivano tali, oggi siete rimasti in pochi. Cosa c’è nel pensiero di Marx e in quella dottrina economica che considera ancora oggi così fondamentale? Non ritiene che l’ambiente economico descritto da Marx sia profondamente diverso da quello in cui viviamo noi?
Marco Veronese Passarella: Sì e no. Non v’è dubbio che il capitalismo particolare in cui Marx ha vissuto, ossia il capitalismo manifatturiero britannico del diciannovesimo secolo, appaia a prima vista diverso da quello odierno, iperfinanziarizzato e immediatamente globalizzato. Non è però casuale che Marx abbia dedicato il proprio maggiore sforzo teorico non già ad un tipo particolare di capitalismo, né tantomeno alla borghesia (ossia il nemico individuato ne Il manifesto del partito comunista), ma al “capitale”. Non la descrizione di questa o quella forma capitalistica particolare, ma l’analisi della fisiologia profonda delle leggi di movimento che regolano il processo di sviluppo capitalistico è infatti il grande contributo, “inattuale” e perciò sempre attuale, di Marx. L’insegnamento fondamentale che possiamo trarne riguarda, infatti, la natura profonda delle economie capitalistiche. Lungi dall’essere semplici sistemi di scambio tra agenti-atomi indipendenti e cooperanti, come impone la visione economica dominante, esse vanno riguardate come sistemi monetari di produzione, finalizzati alla realizzazione e accumulazione di un sovrappiù generato a mezzo di lavoro vivo. È l’anticipazione di un capitale monetario che consente alle imprese (la classe dei “capitalisti”) di dare avvio all’intero processo economico, in cui lo scambio tra liberi ed eguali sul mercato dissimula lo scambio ineguale (leggi: il rapporto di sfruttamento capitalistico) nella produzione tra salariati e imprese. Le tendenze individuate da Marx sulla base di quei presupposti sono ben note. Dall’impoverimento relativo crescente della classe dei salariati alla perenne riproduzione di un esercito industriale di riserva, ossia di sacche di lavoratori inoccupati; dalla tendenza alla concentrazione e centralizzazione dei capitali alla finanziarizzazione come risposta alla crisi di valorizzazione del capitale “produttivo”; dalla riduzione tendenziale dei margini di profitto nelle attività manifatturiere al depauperamento delle risorse naturali. Mi sembrano tutte tendenze confermate dall’evidenza empirica, oggi più che mai.
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